C’è stato un tempo in cui la scuola rappresentava una promessa. Una promessa di emancipazione, di riscatto, di futuro. La scuola di massa, aveva un obiettivo chiaro: alfabetizzare. Dare strumenti minimi e necessari a un’intera popolazione per poter leggere, scrivere, comprendere il mondo. E in questo, va detto, ha funzionato. Ha aperto varchi, ha permesso a intere generazioni di salire qualche gradino in più nella scala sociale, di immaginarsi altrove.
La scuola di oggi
Ma oggi? Oggi sembriamo ancora inchiodati a quella stessa idea di scuola, come se il mondo non fosse cambiato nel frattempo. Nonostante le molteplici innovazioni didattiche introdotte negli ultimi anni, dal cooperative learning alla flipped classroom, dai compiti autentici ai laboratori interdisciplinari, la scuola continua a gravitare attorno a un centro che sembra immobile: il programma.
Alla fine, tutto torna lì. Come se l’obiettivo fosse ancora quello di “riempire la testa”, invece che formare una “testa ben fatta”, capace di pensare, di scegliere, di agire.
Anche le esperienze più innovative, quindi, rischiano così di trasformarsi in una corsa contro il tempo per coprire i contenuti, più che per scoprire i significati. E in questo meccanismo, l’ascolto, l’emozione, la relazione finiscono ai margini, come se fossero accessori, e non strutture portanti del processo educativo.
Le trasformazioni
Nel frattempo, tutto intorno si è trasformato. Le conoscenze non sono più beni rari, custoditi nei manuali scolastici: sono ovunque, disponibili, caotiche. Ma la capacità di orientarsi, di scegliere, di comprendere sé stessi e gli altri. Quella, sì, è diventata sempre più fragile. E forse il vero bisogno oggi non è più solo quello di “sapere”, ma di imparare a stare bene. Anche a scuola.
E mentre continuiamo a inseguire programmi didattici nati in un altro secolo, ci accorgiamo, non senza sgomento, che qualcosa si è incrinato. La scuola è piena di segnali di disagio, ma si ostina a ignorarli. Cresce la fragilità emotiva, crescono le difficoltà relazionali nel stare dentro ai conflitti.

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Le difficoltà
Non parliamo solo di atti eclatanti, di notizie da prima pagina. Parliamo della fatica quotidiana di stare insieme, dell’incapacità crescente di gestire il dissenso, del bisogno quasi urgente di esplodere perché non si è mai imparato ad ascoltarsi davvero. E ci si lamenta sempre dei ragazzi, delle famiglie, della società.
Ma la scuola? Continua come se nulla fosse, replicando gesti, contenuti e modelli educativi rimasti identici da cinquant’anni. Come se bastasse il programma di storia per contenere una crisi affettiva.
È difficile capire come si possa restare impassibili. E ancora più difficile accettare che, di fronte alla violenza, la risposta sia spesso solo la punizione. Come se bastasse una nota sul registro a contenere una rabbia che ha radici ben più profonde.
Eppure, tutto comincia molto prima. Alla scuola dell’infanzia, già lì, i bambini faticano ad accettare regole che un tempo erano scontate. Anche questo è un segnale. E come ogni segnale, chiede di essere ascoltato.
Il vero cambiamento
Eppure, per cominciare a cambiare davvero, non servono rivoluzioni titaniche. Non servono nuovi acronimi ministeriali o programmi complicati.
A volte basta pochissimo. Basta restituire spazio alla voce dei bambini e dei ragazzi. Ascoltarli per davvero, non con l’intenzione di rispondere, ma con la disponibilità a comprendere.
Basta riconoscere che ciò che funzionava un tempo, per contesti, famiglie, ritmi che non esistono più, non è detto che funzioni ancora oggi.
Basta smettere di pensare che l’educazione sia solo trasmissione di contenuti, e ricordarsi che è prima di tutto incontro, relazione, presenza. È da lì che si comincia. Ed è da lì che possiamo ripartire.
Di Antonella Gorrino, pedagogista e formatrice CPP
27 maggio 2025